Quando il governo italiano scappò a casa dei duchi di Bovino

di ROSARIO DE LAURENTIIS
IMG_0258In questi giorni, sollecitato da Silvano Arcamone ad occuparmi delle visite guidate previste fino al 22 giugno nella Torre Guevara, ho fatto qualche altra ricerca per proporre notizie più fresche ai volenterosi che vorranno venire a sentire i miei racconti sui fasti della famiglia proprietaria della torre conosciuta come di Bovino o di Sant’Anna. Ho perciò messo da parte per un momento i miei appunti sulla storia dei Guevara nell’alto medioevo per vedere se c’era qualcosa di più recente da riferire.
Ed ho trovato un gustoso episodio che riguarda una pagina dolorosa della storia d’Italia relativa all’8 settembre del ’43. Per presentare i protagonisti meno noti di questa storia è il caso di ricordare che la nostra Torre, detta appunto di Bovino, si chiama così perchè i Guevara – nella seconda metà del ’500 - acquistarono quel feudo aggiungendo così ai loro titoli anche quello di Duca di Bovino. La famiglia aveva numerosi feudi sia in Spagna che in Italia ed ha continuato a frequentare la torre ischitana
fino a circa il 1830.
Alla fine del ’700 don Prospero Guevara, IX duca di Bovino, aggiunse il cognome della madre (Suardo) avendo ereditato dalla famiglia materna il ducato di Castel d’Airola. Fu probabilmente suo figlio Carlo a decidere di abbandonare la proprietà di Ischia, sdegnato per la decisione del Comune di far seppellire i morti del colera del 1830 quasi sotto le finestre della Torre. Si dice che proprio il trasporto dei cadaveri via mare nella baia di Cartaromana avesse ispirato al pittore Boecklin il suo quadro intitolato “L’isola dei morti”. Quest’opera d’arte ha colpito la fantasia di molti ed in particolare dei dittatori. Certamente era nello studio di Hitler quando fu firmato il patto Molotov-Ribbentrop, ma dopo la sua morte divenne bottino di guerra sovietico e pare che lo stesso Stalin l’abbia tenuta esposta fino al momento di restituirla alla Germania.
Lasciata Ischia, i Guevara Suardo conservarono il titolo di Duchi di Bovino fino alla fine dell’800, quando Maddalena Guevara Suardo lo trasmise al figlio Giovanni De Riseis che – nel feudo familiare di Crecchio, in provincia di Chieti – fece costruire un castello vicino alla torre duecentesca della sua famiglia. In quel castello è ambientato il nostro aneddoto, che ha protagonista sua moglie Antonia. Maria Antonietta d’Alife Gaetani dell’Aquila di Aragona, non bastandole i titoli di principessa di Satriano, duchessa di Bovino, baronessa di Crecchio ed un’altra decina di corone nobiliari, fu anche dama di Palazzo della regina Elena e -per 33 anni- presidentessa della Croce Rossa Italiana.
Ma torniamo a quei giorni tragici e ridicoli che accompagnarono la caduta del fascismo. La duchessa di Bovino è nella sua residenza estiva di Crecchio, dove ha saputo della caduta di Mussolini. E’ ancora in vestaglia ed i suoi nipoti giocano nel parco quando una grossa automobile si ferma all’ingresso della villa. Si sente improvvisamente chiamare e si trova davanti il principe
Umberto, che è stato già altre volte suo ospite. Quello che segue è la cronaca dei fatti raccontata sul Candido e poi in un libro (“I Savoia nella bufera”) da Giorgio Pillon. Il principe la informa che – insieme a lui – ci sono anche i sovrani. La duchessa sbianca per
l’emozione, non solo per la visita inaspettata ma anche perchè Umberto, per la prima volta, dice “mio padre e mia madre” e non “le Loro Maestà”. L’imbarazzo aumenta quando apprende che con la famiglia reale c’è anche il nuovo capo del governo ed una carrettata di ministri e generali. Sono tutti scappati da Roma durante la notte e sono diretti a Pescara dove contano di imbarcarsi per il Sud Italia, già in mano agli alleati. Preoccupati di arrivare in città prima della nave militare che dovrà farli fuggire, hanno mandato il duca d’Acquarone in avanscoperta e – su consiglio dello stesso Umberto – hanno pensato di fermarsi in casa di amici per non dover attendere in città l’arrivo della corvetta “Baionetta”. (Permettetemi – da inguaribile mazziniano – di sogghignare sul fatto che il re “sciaboletta” scappa sulla “baionetta”).
Arriva la coppia reale e la regina abbraccia la sua amica, che si affretta a dare ordine per alloggiare la cinquantina di ospiti imprevisti. Il bagaglio della sovrana è andato smarrito, e così la duchessa deve fornire un po’ di biancheria per il viaggio. Ordina di ammazzare una cinquantina di polli ed organizza tre turni per far mangiare gli ospiti nella sala da pranzo, non adeguata a tale quantità di commensali.
Consumano il pasto (solo un po’ di brodo per la regina Elena, mentre il re – contrariamente alle sue abitudini – mangia con appetito e fa commuovere la cuoca quando dichiara di aver gustato molto ogni piatto). La duchessa, il cui marito è senatore ed è stato il primo podestà di Napoli, domanda privatamente a Badoglio ed alla regina se era proprio necessario l’ arresto di Mussolini, ricevendo una risposta seccata dal primo, imbarazzata da parte della sua amica.
Altra gaffe della nobildonna: sente Umberto che viene consigliato dai suoi aiutanti di tornare a Roma (e la risposta è: “dobbiamo ubbidire al re; in casa Savoia si regna uno alla volta”) ma convince il principe, che la considera una vera amica, a richiedere nuovamente al padre il permesso di tornare a Roma. Anche il nuovo tentativo – che forse avrebbe cambiato la storia d’Italia – va a vuoto, questa volta perchè è la regina a non voler separarsi dal figlio.
Finalmente, dopo che tutti si sono riposati e rifocillati, il corteo va via… ma la nave non è arrivata a Pescara ed è attesa ad Ortona molto più tardi. La duchessa sta cercando un rimedio al suo mal di testa quando sente di nuovo chiamare al portone … sono tornati tutti, anzi si sono aggiunti un’altra ventina di cortigiani.
Subito nuovi polli da ammazzare, ma questa volta i profughi non si trattengono a lungo. Ripartono infatti dopo qualche ora ed arrivano senza problemi all’imbarco sulla piccola corvetta, dove altri duecento generali – tutti rigorosamente in borghese – tentano disperatamente di imbarcarsi anche loro, con scene di arrembaggio che ben testimoniano il carattere della classe dirigente di quei tempi.
Insomma, ogni giorno scopriamo un altro motivo per guardare con interesse alla nostra Torre dei Guevara.

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