Da qualunque parte si decida di entrare, l’impressione è la stessa. E non è di quelle che meglio si attagliano ad uno dei “gioielli di famiglia” di cui Ischia va (e dovrebbe andare molto di più) orgogliosa. Uno dei luoghi simbolo e dunque anche di rappresentanza, richiamo turistico di primo piano e sede di manifestazioni che dovrebbero contribuire a rafforzare l’immagine dell’isola ben oltre il limite imposto dal mare. Il tutto di contorno ad un gioiello a sè, preziosissimo scrigno – senza timore di esagerare – della cultura occidentale. Perchè sulla collina dell’Arbusto il contenitore, ovvero la villa e il suo parco, e il contenuto, leggi Museo Archeologico di Pithecusae, rappresentano due magnifiche e pregevoli realtà anche a prescindere dalla loro integrazione, che dall’aprile del ’99 ha prodotto uno straordinario polo storico, culturale, naturalistico che dovrebbe essere tappa imprescindibile visitando l’isola. Eppure, a sintetizzare nel modo più significativo lo stato attuale di quel luogo è il drappo una volta purpureo, oggi scolorito e sbrindellato, tanto da rendere illeggibile la scritta originaria, che sormonta l’ingresso principale su corso Angelo Rizzoli.
Il primo impatto con Villa Arbusto, arrivandoci dal centro di Lacco Ameno, è con il cancello imponente, pieno di ruggine, che si apre sul lungo e sinuoso viale che conduce su per l’altura. Sulla sinistra, appena entrando, una casupola “sgarrupata”, che anticipa lo stato dii conservazione – pessimo – di tutte le strutture del complesso. Dai pilastri di cemento che delimitano il viale sui due lati all’edificio principale della villa che fu di Angelo Rizzoli, fino al muro di confine che costeggia la Circumvallazione, dalla parte opposta della vasta proprietà comunale. A vedere come sono ridotte le strutture, con i ferri arrugginiti che emergono dove l’intonaco è caduto, in tanti punti, pare che siano passati chissà quanti decenni dall’ultima, radicale ristrutturazione. E, invece, sono solo vent’anni da quando furono spese vagonate di soldi pubblici, sfruttando i finanziamenti europei per le isole minori che a Ischia hanno prodotto opere tanto importanti e costose quanto effimere. E Villa Arbusto non fa eccezione, purtroppo: una triste conferma di tutte le riserve, le critiche e le polemiche che nei primi anni Novanta avevano accompagnato in giro per l’isola le “mirabolanti” progettazioni e realizzazioni firmate tutte dallo stesso architetto con “pedegree”.
Un peccato originale da scontare a cui, nel tempo, si è aggiunto il devastante andazzo di tutte le amministrazioni isolane inclini a spendere solo quando ci sono milioni di mezzo e, di contro, a non destinare neppure un euro all’ordinaria, necessaria manutenzione. A dimostrarlo, anche a Villa Arbusto, ci sono le persiane di ferro completamente stinte dal sole, le ringhiere su cui la ruggine imperversa, le finestre sverniciate che fanno brutta mostra di sè nelle sale del museo. Tutti lavori semplici, poco costosi, alla portata anche del Comune più misero, purchè dotato di un minimo di organizzazione e di efficienza. Condizione che, evidentemente, manca da tempo a Lacco Ameno (e non solo). Senza trascurare l’impianto elettrico sul viale principale completamente fatiscente, comprese le cassette elettriche aperte con grovigli di fili elettrici scoperti, perfino davanti all’ingresso del Museo. Altre brutture, pure pericolose, facilmente e pure doverosamente recuperabili. D’altra parte, i punti luce sono rovinati anche negli spazi esterni intorno alla Villa, dove si sono sempre svolte manifestazioni di rilievo, sfruttando d’estate lo splendido panorama in versione notturna. Che ci sarebbe voluto a rimetterli a posto, man mano che se ne presentava la necessità come chiunque fa nella propria casa? Di sicuro, non si sarebbe arrivati allo “sperpetuo” attuale e si sarebbe speso molto meno denaro pubblico per le riparazioni di routine. Ma tant’é: a Ischia si lavora solo sui grandi numeri.
Ma non è solo un problema di cura degli edifici, la trascuratezza e l’abbandono sono il segno distintivo in ogni angolo, fatta eccezione per la porzione di giardino tra la struttura principale e Villa Gingerò, passando per il caratteristico pergolato. Anche se del bellissimo “Giardino della signora Anna”, la moglie di Rizzoli, con le sue numerose rarità botaniche resta ormai solo il ricordo…Ma già è una cosa che al pezzo più praticato del giardino sia stata finora evitata la condizione vergognose in cui versano gli altri spazi verdi del parco. Abbandonati o usati per depositarvi ogni tipo di suppellettili e anche di “monnezza”. Perchè Villa Arbusto è stata trasformata, anche nei punti più visibili, sotto gli occhi dei tanti turisti, nel deposito comunale: dal piazzale di Nestore, dove oltre allo scuolabus ci sono accatastati transenne e materiali vari, alle piazzole sottostanti, che accolgono attrezzature e roba assortita, anche di risulta.
Ma il peggio, un vero e proprio sfregio, è l’aver trasformato da anni il terreno di fianco alla Villa, parte integrante della proprietà comunale, in una discarica di sfalci e materiali organici frutto di potature, che non cambia la natura intollerabile di quella strana destinazione d’uso, uno sterpaio dove le “zoccole” si moltiplicano. Un oltraggio per la Villa, ma soprattutto per quello che c’è sotto quel terreno: un’area archeologica corrispondente al centro dell’abitato di Pithecusa, che custodisce, come avrebbero dimostrato veri saggi, testimonianze importantissime del più antico insediamento dei Greci in Occidente, davvero la culla della Magna Grecia. E l’anello mancante dell’esplorazione compiuta dal ’52 da Giorgio Buchner tra la necropoli di San Montano, l’acropoli di Monte Vico e il quartiere siderurgico di Mazzola. Un’area che in qualunque altro Paese del mondo avrebbero già scavato e valorizzato a livello culturale e turistico e che da noi serve “pe ce menà a munnezza”!
E per concludere una sconfortante visita a Villa Arbusto, c’è l’immagine dei cumuli di aghi di pino e le erbacce che assediano i pochi giochi rimasti del parco per i bambini. La dimostrazione più sfacciata di un abbandono a tutto campo che non ha giustificazioni.