Quando i bambini di Pithecusa portavano al collo gli scarabei dedicati al dio Amon

IMG_0889Sono passati pochi mesi da quando gli isolani si entusiasmarono per l’arrivo dei due sarcofagi egizi attualmente in corso di restauro sul Castello Aragonese. Un entusiasmo più che giustificato, sia per l’importanza dell’impresa che l’Istituto Europeo del Restauro sta portando avanti sulla nostra isola, e non solo in questo caso, che per il valore intrinseco di avere sul nostro “scoglio” due oggetti così affascinanti di una delle più straordinarie civiltà antiche del Mediterraneo. Una civiltà con cui interagirono anche i nostri antenati pithecusani. che coltivarono contatti frequenti e significativi anche con i popoli del Mediterraneo orientale e in particolare con gli Egizi. Ciò di cui restano testimonianze inequivocabili tra i reperti riportati alla luce da Giorgio Buchner nella necropoli di San Montano, ora custoditi ed esposti nel MUSEO ARCHEOLOGICO DI VILLA ARBUSTO.

Fu già nei primi anni di esplorazione della necropoli che vennero rinvenuti i caratteristici scarabei egizi. Non rari esemplari, ma al contrario decisamente numerosi, tanto da risultare una presenza ricorrente nelle tombe di bambini più antiche. La maggior parte degli scarabei, infatti, provengono da tombe della seconda metà dell’VIII secolo a.C., mentre “pochissimi sono stati trovati in tombe della prima metà del VII e dell’inizio del VI sec.”, come scrisse lo stesso Buchner in una sua comunicazione al Centro Studi sull’Isola d’Ischia. Indicazioni che consentirono di ricostruire un’abitudine dei primi abitanti di Pithecusa: gli scarabei avevano un significato apotropaico e in un’epoca segnata dall’altissima mortalità infantile, venivano donati ai bambini fin dalla nascita come amuleti, che portavano appesi al collo e da cui non si separavano mai. Perciò, quei particolarissimi ciondoli, insieme agli altri oggetti dei corredi funerari, li accompagnavano anche nella morte ed è stato grazie a questa pratica che sono potuti arrivare fino a noi praticamente intatti.

Gli scarabei in uso tra i Pithecusani, a parte pochissime imitazioni, sono nella stragrande maggioranza originali importati dall’Egitto. E’ stata identificata anche la loro zona di produzione, ovvero la regione del Delta del Nilo. Sebbene abbastanza diffusi nei centri antichi del bacino mediterraneo, il numero rinvenuto nella necropoli di Ischia, oltre 200, e la loro varietà non ha paragoni in nessun altro luogo. Un segnale evidente di scambi commerciali particolarmente vivaci e frequenti tra Pithecusa e l’Egitto. Tanto più rimarchevoli giacchè nel periodo a cui risale la maggiore quantità di scarabei (ovvero la seconda metà dell’VIII secolo), come nei secoli precedenti, i contatti tra Grecia ed Egitto non erano affatto intensi.

Caratteristica ricorrente degli scarabei di Pithecusa è la citazione-invocazione al dio Amon. Frequenti sono le epigrafi e gli elementi crittografici. Peraltro, a parte la forma rotondeggiante, gli amuleti presentano una grande varietà di raffigurazioni, seppur in miniatura: vari animali (cervi, uccelli, capre, leoni, pesci), più rare sagome umane spesso stilizzate, foglie, palmette. Lo smalto vetroso che li ricopre (la cosiddetta faience egizia) è di diversi colori e sfumature, dal più raro bianco al più frequente verde, all’azzurro. In molti casi sono incastonati in piccoli cerchi d’argento e forati per poter essere appesi ad una collana.

Tra tutti gli scarabei egizi esposti a Villa Arbusto, uno ha un valore storico di gran lunga superiore agli altri. Recuperato nella tomba 495, appartenente ad un bambino di tre anni e ricca di pregevoli oggetti di varie provenienze, ricoperto di faience verde, con un pendente in argento, reca un cartiglio su cui è inciso “Wahkare”, il prenome del faraone Bocchoris, della XXIV dinastia, regnante tra il 720 e il 715. Proprio l’indicazione del faraone e il suo breve periodo di regno hanno consentito una datazione precisa non solo della tomba, ma anche delle ceramiche che vi erano rinchiuse. Così la “TOMBA DI BOCCHORIS” di Pithecusa è diventata un punto di riferimento imprescindibile per la datazione della ceramica greca dell’VIII e del VII secolo, che in precedenza era basata solo sui periodi di fondazione delle varie colonie greche. E, come rilevò Buchner, “le indicazioni cronologiche che vi si possono ricavare sono in ogni caso ben più chiare e precise dei dati incerti e di dubbia attendibilità fornite dalla famosa Tomba di Bocchoris di Tarquinia, così detta dal vaso di pastiglia invetriata che porta il nome dello stesso Faraone”.

IMG_1471Anche se i sarcofagi egizi ospiti sul Castello sono più antichi di Pithecusa di circa trecento anni, ci sono comunque un paio di elementi comuni. Innanzitutto, la zona del Delta  del Nilo, dove proprio i faraoni della XXI dinastia, a cui risalgono i sarcofagi, fissarono la loro nuova capitale, Sais. E poi quei sarcofagi, come gli altri ritrovati nello stesso sepolcro della necropoli di Deir-el-Bahari, accoglievano le mummie dei sacerdoti del dio Amon. “Colui il cui nome è nascosto”, come è definito sugli amuleti egizi che dovevano proteggere i piccoli pithecusani.

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