Il 24 maggio scorso gli isolani saliti al Castello per la giornata di apertura a loro dedicata, avevano già potuto ammirarla. Così come i tanti turisti che quest’anno hanno visitato la rocca. Ma fino ad oggi, per tutti, quella cappellina accessibile dalla cripta scendendo cinque scalini era priva di identità. Una sorpresa, stupefacente per quegli affreschi appena restaurati, che aggiungevano un nuovo gioiello al tesoro già rappresentato dal complesso storico-artistico formato dalla Cattedrale e dalla cripta. Dove, nel frattempo, proseguiva il restauro della cappella Bulgaro, identificata grazie alla presenza dello stemma della potente famiglia di epoca angioina. Il particolare che ha permesso di riscoprire anche le origini dell’anonima cappellina sottostante, identificata per anni solo con il numero 8. Un mistero finalmente svelato grazie alla determinazione con cui la storica dell’arte SERENA PILATO ha affrontato una ricerca difficilissima, se non addirittura ardua per la mancanza di qualunque fonte documentaria e la scarsità degli elementi utili, scovati “leggendo” attentamente ogni millimetro delle parti dipinte. Ciò che rende ancora più intrigante il risultato di quella ricerca, affidato alle pagine di un volumetto – presentato poco fa sul Castello - “LA CAPPELLA DEI CALOSIRTO”, che dopo sette secoli di oblio ci restituisce una entusiasmante pagina della storia dell’Insula Minor.
LA SCOPERTA DELLA CAPPELLINA SOTTO LA CRIPTA
Già la scoperta della cappellina aveva avuto modalità straordinarie, seppur non uniche sul Castello. Durante una verifica nella cripta, una decina di anni fa, si era notata una parete un po’ malmessa e, appurato che si trattava di un tompagno, la si era abbattuta scoprendo dietro di essa un ambiente, sottostante al piano di calpestio della cripta, pieno di detriti e che non aveva suscitato sulle prime particolare interesse. “Pensavamo fosse un sottoscala”, ha spiegato l’architetto NICOLA MATTERA, che ha raccontato come poi si fosse deciso di estrarre quella terra, che era risultata piena di ossa, facendo già ipotizzare che si trattasse di un luogo di sepoltura per una pestilenza. Ed era stato emozionante, man mano che la terra veniva tolta, veder apparire i dipinti sulle pareti: “Immagini molto nitide all’inizio, che il contatto con l’aria e il sale in poche ore coprirono”. Ci si premurò di mettere subito in sicurezza la struttura, per poi procedere ad un accurato recupero, affidato all’èquipe dell’ISTITUTO EUROPEO DEL RESTAURO, guidata per il restauro pittorico da ELEONORA CERRA, con il contributo specialistico di ALBERTO FELICI del celebre Opificio delle Pietre Dure di Firenze. Con il risultato che oggi in occasione della presentazione del libro ha fatto dire a Mattera: “La mia famiglia è orgogliosa di aver promosso il restauro della cappella, che per noi è un ambiente familiare. D’altra parte, il nostro rapporto con il Castello non è di possesso, ma di familiarità, perché questo luogo va curato come un componente della famiglia”.
A contestualizzare le scoperte relative alla cappella dei Calosirto è stata l’architetta nonché presidente del Circolo Sadoul ILIA DELIZIA che, introdotta dal moderatore Pasquale Raicaldo, ha ricordato come già da tempo si sia ipotizzato che quella “che viene convenzionalmente definita CRIPTA”, potrebbe essere stata un EDIFICIO SACRO AUTONOMO dalla soprastante Cattedrale dell’Assunta. A sostegno di questa lettura ci sono le caratteristiche di quell’ambiente, molto diverse da quelle delle cripte medievali, di solito molto più piccole e collocate in corrispondenza dell’altare maggiore della chiesa collegata. Perciò, quella sul Castello è possibile che fosse una chiesa autonoma, che presenta peraltro elementi architettonici che si giustificano con la necessità di sostenere proprio la fabbrica della Cattedrale, innalzata nel 1302, quando gli abitanti dell’isola maggiore colpita dall’eruzione di Fiaiano si rifugiarono sull’isolotto. Che fino ad allora aveva ospitato inizialmente solo proprietà agricole e poi progressivamente le ville dei nobili che risiedevano sull’isola grande. Fu in età angioina che, pur popolandosi il Borgo di Mare (l’attuale Ischia Ponte), le famiglie nobili cominciarono a spostare la loro residenza sul Castello. Che la costruzione della Cattedrale e il trasferimento dell’Episcopio e degli edifici civili per l’eruzione trasformarono da “castrum” a “civitas”. E già allora era presente lì la FAMIGLIA CALOSIRTO, che vi possedeva, oltre alla cappella appena attribuitale, anche la CHIESA DELLA MADONNA DELLA LIBERA e il PALAZZO di cui si fa menzione in un inventario del 1823, fatto redigere dal governo borbonico prima di fare della rocca un luogo di pena.
Proprio dalla chiesa della MADONNA DELLA LIBERA è partito il percorso di GINA CARLA ASCIONE, storica dell’arte della Sovrintendenza ai Beni artistici e paesaggistici che garantisce la tutela del patrimonio artistico a Ischia e sovrintende pure ai restauri sul Castello. Già nel recupero di quell’edificio sacro dei Calosirto, anni fa, erano stati ritrovati DUE AFFRESCHI SOVRAPPOSTI: uno della fine del ’200-primi ’300 e l’altro del 1350, completamente diversi tra loro. Se il primo, infatti, è legato a influssi artistici comuni in quel periodo nell’Italia meridionale, il secondo risente chiaramente delle novità stilistiche della SCUOLA GIOTTESCA ATTIVA NELLA FABBRICA DI CASTEL NUOVO. Artisti come Maso di Banco e Roberto di Oderisio indirizzarono anche il gusto dei committenti e evidentemente l’esigenza di rinnovare le decorazioni delle chiese arrivò fino ad Ischia. La stessa duplicità di influssi e di stili si ravvisa negli affreschi della Cappella dei Calosirto e sono questi particolari stilistici che hanno svolto un ruolo essenziale nella ricerca di Serena Pilato, seguita in ogni fase dalla Ascione, così come i restauri, effettuati con metodologie rigorosamente scientifiche.
QUEL PREGEVOLISSIMO AFFRESCO DI SCUOLA GIOTTESCA
A descrivere gli affreschi e il percorso che da essi ha portato a fare luce sul passato della Cappella e sull’origine dei dipinti è stata Serena Pilato, con una esauriente relazione che ha preparato una VISITA GUIDATA NELLA CRIPTA di cui hanno goduto tutti i partecipanti alla presentazione del libro.
Gli affreschi innanzitutto sono di mani, stili e periodi diversi. Sulla parete di fronte all’ingresso e su quella di destra sono raffigurate, riquadrate in rosso, scene dell’infanzia di Cristo: l’ADORAZIONE DEI MAGI, LA FUGA IN EGITTO, LA PRESENTAZIONE AL TEMPIO. Risalgono all’ultimo decennio del XIII secolo e sono opere decisamente arcaiche, di un artista dal tratto ingenuo, semplice, di chiara influenza bizantina, che potrebbe essere venuto da Salerno, perchè in quel periodo sono accertati collegamenti tra gli abitanti del Castello e quella città.
La presenza di dipinti così antichi conferma l’ipotesi, già avanzata in passato, che sull’isolotto vi fosse un luogo sacro preesistente all’edificazione della Cattedrale e dunque al radicale cambiamento della funzione del Castello, con il conseguente popolamento in massa, avvenuto nel 1302. E la Cappella sotto la cripta è il nucleo più antico di tutto il complesso sacro che culmina nell’edificio della Chiesa madre, di stile gotico, della nuova città.
Sulla sinistra della Cappella, in basso, a sinistra su un basamento di pietra, resta una statua in stucco della Madonna con Bambino, con entrambe le figure acefale, mentre sulla destra vi è un buco a cui doveva corrispondere un’altra statua. Sulla parete, al centro, in un riquadro sempre contornato di rosso, si trova un affresco completamente diverso dagli altri, che raffigura un CRISTO TRA LA MADONNA E SAN GIOVANNI che risale agli anni ’40 del Trecento. Serena Pilato, con lo stesso metodo utilizzato per studiare gli altri affreschi, ha compiuto un ampio e complesso lavoro di ricerca, ha fatto confronti con artisti e opere della capitale del regno angioino e con le altre realtà artistiche del Sud ed è arrivata alla conclusione, supportata da prove decisamente convincenti, che quell’opera sia riconducibile agli ambienti giotteschi attivi a Napoli a partire dalla fabbrica di Castel Nuovo. Ma, entrando più nello specifico, ha trovato molti tratti comuni alle opere del cosiddetto MAESTRO DI GIOVANNI BARRILE, artefice della Cappella Barrile in San Lorenzo Maggiore e attivo anche nel chiostro di Santa Chiara. E siccome l’affresco ischitano è di fattura molto pregevole, c’è da ritenere che possa essere proprio opera del Maestro o di un suo allievo molto bravo.
La storia di quel dipinto conferma, come ha sottolineato Ascione, che Ischia non è mai stata un territorio “di periferia” rispetto a Napoli, bensì una realtà organica a quella cittadina, anche a livello culturale, e malgrado l’insularità. Il Maestro di Giovanni Barrile, per esempio, potrebbe essere arrivato a Ischia grazie alla FAMIGLIA COSSA, giacchè Marino Cossa aveva sposato una Barrile.
L’affresco è al centro di una parete forse sormontata da un sarcofago, ma spoglia. Probabilmente quel dipinto è il fulcro di un’opera incompiuta. E anche le stranezze delle statue lasciano pensare ad un evento che dovette cambiare in fretta la situazione nella Cappella. Dove, al contrario che nella cripta, nella quale vi sono testimonianze di interventi di varia natura in tutte le epoche successive, nella Cappella non vi sono tracce posteriori a quell’affresco. E questo potrebbe spiegarlo, secondo Serena Pilato, l’EPIDEMIA DI PESTE NERA, che nel 1347 falcidiò la popolazione a Napoli e che probabilmente mieté vittime anche a Ischia. Perciò fu necessario trovare d’urgenza una FOSSA COMUNE per quell’emergenza sanitaria e le ossa trovate nello scavo confermano quell’utilizzo. D’altra parte, in quel periodo la Cattedrale già era stata costruita (e nella Cattedrale è riemersa anni fa una cappella trecentesca sconosciuta, affrescata secondo uno stile anch’esso riconducibile alla scuola giottesca) e nella nuova chiesa i Calosirto avevano una nuova cappella. Perciò, quella più antica, che era diventata un corpo non omogeneo alla cripta e che si prestava per il suo livello ancora più in basso, fu sacrificata all’emergenza.
IL LEONE RAMPANTE DEI CALOSIRTO
Ma come si è arrivati a individuare nei CALOSIRTO I PROPRIETARI DELLA CAPPELLA? Decisivi sono stati gli STEMMI riemersi dal restauro: uno sulla parete centrale in basso e un altro sull’arco all’ingresso. Vi sono raffigurati un leone rampante a sinistra e delle onde a destra. C’è voluta molta pazienza, a Serena Pilato, per arrivare a identificare a chi appartenesse. La risposta è arrivata in uno dei tanti archivi consultati, in un documento che riporta gli stemmi di tutte le famiglie nobili dei epoca angioina a Napoli e dintorni, Ischia compresa. E grande è stata l’emozione nel trovare quel cognome così familiare a ogni ischitano, perchè legato al Santo patrono e concittadino, Giovan Giuseppe della Croce. Un altro tassello che si aggiunge ad una storia straordinariamente affascinante. Che getta nuova luce sul passato del principale monumento isolano e ci restituisce un altro prezioso scrigno di arte.