Lui il profumo delle pecore se lo porta addosso da ancora prima di essere ordinato sacerdote. Aveva vent’anni, Luigi Ciotti, perito elettrotecnico, quando fondò la sua prima “creatura”, il GRUPPO ABELE, nato sulla strada per andare incontro ai poveri e ai bisognosi, quelli che dice oggi “mi hanno cambiato la vita”. Accadeva 50 anni fa, a Torino, dove da ragazzino si era trasferito con la famiglia e aveva fatto esperienza della difficoltà di avere una casa. Con la nuova associazione, “l’incontro con la disperazione di tante persone”, giovani soprattutto, si svolge spesso negli istituti di pena per minorenni e nella case di correzione femminili, seguendo i loro difficili e tortuosi percorsi di vita. Così, VISITARE I CARCERATI diventa un impegno costante, che accompagnerà anche gli anni successivi e che sarà una delle cifre dell’intenso lavoro di volontariato del Gruppo Abele. Perciò, per commentare e illustrare quest’opera di misericordia, nel quadro delle Catechesi giubilari promosse dalla Diocesi di Ischia, lunedì scorso è stato chiamato proprio don Luigi Ciotti. Che ha parlato con la forza e la passione di chi mette tutte le sue capacità e risorse vitali in ciò in cui crede, ma anche con la profonda umiltà di chi davanti alle grandi sfide di umanità le raccoglie con la consapevolezza dei propri limiti, fino a iniziare l’incontro con uno spiazzante, sincero “non ho nessun titolo, mi sento piccolo”, che lo porta perfino a scherzare sulla sua “laurea in scienze confuse”.
Fu la realtà vissuta nelle carceri, con quei ragazzi che conoscevano già solitudine e marginalità e che allora, nella seconda metà degli anni ’60, ricorrevano a miscele di farmaci e alcool, a suggerire la necessità di proporre delle alternative al di fuori, per indirizzare diversamente esistenze altrimenti perdute. Allora, chi assumeva droghe, per legge, poteva finire solo in galera o negli ospedali psichiatrici, e con la diffusione dell’eroina il fenomeno si era fatto più diffuso e virulento. In quel contesto, l’esperienza del Gruppo Abele è unica in Italia e dà il via alla “battaglia politica degli anni ’70 per ottenere la legge per aprire i Sert”, perchè solo con dei servizi si potevano togliere i ragazzi dal carcere. E con la lungimiranza dell’allora responsabile degli istituti di pena, Radaelli “che intuì strade diverse” con “noi che vivevamo nelle galere”. Dodici volontari del Gruppo Abele che volevano “costruire qualcosa, che la città entrasse dentro e che si aprissero le porte verso l’esterno per i ragazzi”. Con il ministero furono creati percorsi alternativi, per accompagnare i giovani al di fuori del carcere, dare loro un lavoro. E arrivò anche un’incriminazione improvvisa, “per le manovre dei poteri forti per bloccare la sperimentazione nelle carceri minorili”. Ne uscirono tutti innocenti da quella vicenda, uno sprone in più per proseguire sulla strada delle proposte alternative, di vita, ai ragazzi. Perchè “visitare i carcerati è solo l’inizio – sottolinea don Ciotti – poi bisogna inventarsi cose, opportunità”. E di opportunità ne fiorirono parecchie, con tanti laboratori in carcere per preparare alla vita esterna, grazie al Progetto Città concretizzato a Torino.
Lavoro nelle carceri, lavoro sulla strada. Quella strada che “mi ha insegnato a conoscere il volto di Dio in chi fa più fatica” e che gli fu affidata come parrocchia dal vescovo Michele Pellegrino, quando Ciotti fu ordinato sacerdote nel ’72. Un punto di riferimento per Luigi, che lo cita più volte e racconta che nel primo incontro con il Papa, Francesco gli raccontò che un giovane sacerdote, Michele Pellegrino, aveva aiutato i suoi genitori in difficoltà, prima che dal Piemonte emigrassero in Argentina. Con il Papa ha avuto due incontri, che hanno avuto anche un grande risalto mediatico, ma che soprattutto hanno lasciato un segno profondo in don Luigi, che ha svolto il suo intervento nell’affollatissima Cattedrale di Ischia prendendo continuamente spunto dalle parole, dagli scritti, dal magistero di Papa Francesco. E dai suoi gesti, semplici che arrivano a tutti, e che hanno un valore esemplare potente.
Già la prima volta da Bergoglio, la richiesta quasi ardita di incontrare i familiari delle vittime innocenti delle mafie trovò un’immediata riposta positiva: “Non mi ha fatto neanche finire, che bello!”. In mille parteciparono a quell’appuntamento speciale: “Ci siamo dati spontaneamente la mano durante la lettura dell’elenco dei nomi - ricorda don Luigi – e lui che prende la parola e dice di condividere la speranza e che il senso di responsabilità prevalga sulla corruzione. E questo deve partire dalle coscienze”.
E’ sulla RESPONSABILITA’ che don Ciotti si è soffermato. “Tutti parlano di legalità, è la bandiera che tutti usano e pure calpestano”, quella “legalità malleabile e sostenibile”. Ma prima vengono la responsabilità e la DIGNITA’ UMANA. Il Papa, in quell’incontro con i familiari delle vittime, richiamò alle loro responsabilità anche gli uomini e le donne delle mafie, invitandoli a convertirsi. A loro si rivolgerà poi durante il viaggio in Calabria, equiparando all’appartenenza alle mafie l’adorazione del male. E affermando che “chi adora il male è scomunicato”, pur riaffermando ogni volta che Dio vuole salvare tutti e la salvezza, dunque, è possibile, se c’è vero cambiamento.
Tra le numerose citazioni di Papa Francesco anche la sua esortazione “Vinci l’indifferenza, conquista la pace!”, lanciata nel discorso di Capodanno quest’anno. “L’INDIFFERENZA è una malattia spirituale che anestetizza i cuori e addomestica le coscienze”. In quel discorso Begoglio parlò anche dei detenuti, della necessità di migliorare le loro condizioni di vita, di dare una finalità educativa alla sanzione penale, di puntare su pene alternative, oltre a chiedere l’abolizione della pena di morte e un’amnistia. “Il Papa in ogni posto va nelle carceri”, periferie scomode. “Non si tratta di andare nelle carceri dando pacche sulle spalle e dispensando baci – sottolinea don Ciotti – ci si deve andare nella chiarezza. Le persone vanno inchiodate alle loro responsabilità, è un atto d’amore. Perchè se anche ci sono delle componenti oggettive, ambientali, ci sono responsabilità soggettive che non vanno dimenticate. Ma la reclusione non è lo stesso di esclusione, è parte del processo di reinserimento nella società. L’occasione per prendere coscienza degli errori, del male fatto e delle vite distrutte, ma con l’obiettivo del reinserimento”.
Ricordato anche Giovanni Paolo II e la sua visita a Regina Coeli con l’esortazione ad impegnarsi nel pentimento e nel ravvedimento. Obiettivi che richiedono condizioni adeguate e percorsi di giustizia previsti e indicati nell’articolo 27 della Costituzione. Ma tutto questo è anche nella bolla di indizione del Giubileo della Misericordia. E i percorsi della giustizia terrena devono far vedere la luce a chi ha sbagliato, che poi può contare sempre sulla disponibilità al perdono di Dio.
Don Ciotti ha illustrato la situazione nelle carceri, dove sono però stati fatti molti progressi sul fronte del sovraffollamento, sebbene siano sempre numerosi i suicidi e le leggi sulla droghe e l’immigrazione hanno trasformato le carceri “in un magazzino di vite di scarto, che è contrario al Vangelo e all’articolo 27 della Costituzione”. “Smettiamola di trasformare la QUESTIONE SOCIALE IN QUESTIONE PENALE. Le varie forme di sofferenza nascono nella società, che deve farsene carico”, ha puntualizzato Ciotti, evidenziando che dove sono offerti percorsi alternativi alla detenzione, la recidività è crollata. Ma il sacerdote ha esortato anche a visitare le famiglie dei detenuti, ad aiutarle, affrontando “i problemi sociali con umanità e lungimiranza”.
Il fondatore di LIBERA si è soffermato pure sul perdono degli uomini “che non cala dall’alto, è un cammino lungo”. E molti familiari delle vittime innocenti lo intraprendono, andando a visitare i detenuti: “Sono loro i nostri maestri”. E Libera con il Ministero accompagna i percorsi di tanti giovani che hanno sbagliato, proponendo loro una luce che spesso è alimentata dai familiari delle vittime. In questo momento 100 ragazzi. “Chi fa questo scrive una pagina del Vangelo con la sua vita”, è stata la conclusione della catechesi. Perchè non vale parlare, ma bisogna FARE.
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