Vent’anni fa, lo Stato, come espressione di una comunità, aveva preso un impegno solenne con quegli uomini e quelle donne a cui fino ad allora, per decenni, aveva negato rispetto e dignità. Si presentò a loro all’improvviso, con i volti rassicuranti, i sorrisi, la gentilezza di sconosciuti, che si comportavano con una umanità di cui non avevano più memoria. E che cominciarono a visitarli regolarmente e, in quelle occasioni, a prendersi cura di ognuno di loro. Andò avanti così per qualche mese, il tempo per cominciare a riconoscersi e, poco a poco, a fidarsi. Finchè arrivò, in giorni diversi, il momento di lasciare quei cameroni sporchi e fatiscenti, testimoni inanimati di disperazionee abbandono. Fu allora che lo Stato assicurò che non li avrebbero mai più visti, quei cameroni estranei e ostili. Che non avrebbero mai più conosciuto la solitudine del corpo e dell’anima a cui erano stati condannati tanto a lungo, perchè loro erano pazzi e non avevano più diritto alla vita civile. Anzi, non avevano più diritto a una vita.
Così erano tornati sull’isola dove erano nati. E che li aveva dimenticati e allontanati come estranei da sé. Fino a quel ritorno, in autunno, quando avevano visto un’altra volta il mare e il cielo. E poi la strada tra il verde, fino a quella casa piena di luce in cui si erano fermati. Senza capire dove fosse né cosa vi fosse. E cosa li aspettasse. Ma c’erano sempre quei visi ormai familiari ad accompagnarli anche lì, nella grande sala pulita con il divano morbido e il tavolo e le sedie, dove si mangiava cibo buono, nei piatti e con le posate che non erano più abituati a usare. Come i letti con i materassi con le lenzuola e i cuscini nelle stanze pulite, asciutte, ordinate e con le grandi finestre da cui entrava la luce. Da cui si vedevano il mare e il cielo che s’incontravano.
Tra quegli uomini e quelle donne c’erano anche Giovan Giuseppe e Giuseppe e il fratello Crescenzo. Ci volle tempo, per riprendere confidenza con una casa vera, con quelle camere sistemate e pulite e con i bagni altrettanto accoglienti. E con tutte le piccole abitudini quotidiane, con un cibo normale e le posate e i vestiti nell’armadio, con la televisione e le passeggiate. E d’estate, con la spiaggia e il mare. Non più soli, abbandonati, a gridare e a lamentarsi invano. C’erano sempre quei volti familiari vicino, braccia e mani forti a sostenere i passi incerti, ad aiutare a lavarsi, a vestirsi, a mangiare. Volti familiari, modi gentili, conoscenti che erano diventati amici, confidenti, famiglia. Prima di essere operatori, animatori, infermieri, medici.
18 anni era durata quella la vita. E lo Stato aveva mantenuto il suo impegno. Fino a quel giorno d’estate, a metà luglio, in cui erano usciti la mattina per andare a fare la solita passeggiata con il pulmino. Che però non era la solita passeggiata.
Al ritorno, la strada non era più la stessa. E nemmeno la casa. Non c’erano più le stanze di prima, non c’era la sala con il televisore nè il posto per mangiare tutti insieme. Il cielo e il mare non si incontravano più fuori alle finestre. Ma quei volti familiari c’erano sempre. E quelle mani forti e sicure erano ancora pronte a sorreggere, lavare, vestire, imboccare.
In un giorno piovoso di primavera, si uscì in fretta da quel palazzo che non era mai stato casa. Con un po’ di vestiti, di cose necessarie. Per qualche giorno, cambiarono le stanze, i letti, gli orari, le abitudini. Poi, per Giovan Giuseppe, Giuseppe e suo fratello e un altro componente della famiglia venne di nuovo l’ora di un viaggio. Fino al di là del mare. L’ultima volta che lo vedevano. Prima di ritrovarsi in un camerone estraneo, dov’era tutto diverso. Dove i volti erano cambiati, sconosciuti. Dove non c’erano più le mani forti e sicure per sorreggere, curare, vestire, imboccare. Dove c’era di nuovo solitudine. E la famiglia era scomparsa.
E’ così che Giovan Giuseppe Trani ha trascorso l’ultima parte della sua vita. Per lui, con la CHIUSURA DELLA SIR non c’erano più la struttura e i livelli di assistenza adeguati alle sue condizioni. E così anche per Giuseppe e Crescenzo Dell’Aquila e un altro ex residente di Villa Orizzonte. Perciò vennero trasferiti in diverse residenze tra Napoli e il Salernitano. Senza più poter avere alcun contatto con gli altri “pulcini sperduti” nè con gli operatori che erano stati la loro famiglia per 18 anni. Senza più poter uscire, fare una passeggiata, avere contatti con l’esterno, vivere una parvenza di normalità. DI NUOVO ESILIATI, CHIUSI, ESCLUSI. LASCIATI SOLI.
Così lo Stato ha tradito il suo impegno.
Come è anche, fino ad ora, con gli altri “pulcini sperduti” senza una casa.
Giovan Giuseppe era morto ad ottobre. Pochi giorni fa, l’ha seguito Giuseppe. E’ tornato in una bara, vestito solo da un lenzuolo bianco dell’ospedale dove era stato trasferito. Anche dopo la morte, lo Stato è venuto meno al suo impegno: ci sono stati problemi burocratici per seppellire a Ischia Giuseppe, che era rimasto fino all’ultimo residente a Barano. In quella Villa Orizzonte che era stata la sua casa per 18 anni. L’ennesimo, scandaloso dettaglio di una storia che grida alle nostre coscienze assopite, distratte, indifferenti.
Lo Stato, NOI TUTTI SIAMO IN DEBITO CON I “PULCINI SPERDUTI” e i sofferenti psichici di questa isola. Per Giovan Giuseppe e Giuseppe non possiamo più fare nulla, oltre che pregare. Per gli altri, possiamo dobbiamo darci da fare per riaprire una Sir a Ischia. A cominciare dai due che sono “esiliati” in terraferma. DIAMOCI UNA MOSSA! PRIMA DI CONTARE ALTRE MORTI IN SOLITUDINE E DI REGISTRARE ALTRE TRAGEDIE UMANE FIGLIE DELL’INGIUSTIZIA.