Gran serata di teatro e di impegno civile al Poli con la storia di Lia Pipitone, vittima di mafia

TeatroltreLia aveva frequentato l’Istituto d’arte, che poi, quando qualcuno è un po’ strano, gli si dà dell’”artista”. E al posto della gonna, preferiva pantaloni e scarpe da ginnastica, come i “masculi”, ma le “fimmine” devono portare i tacchi, sennò che”fimmine” sono? Lia usciva da sola, spesso, e passava il tempo con gli amici  e ne aveva tanti, di amici. Lia era partita in viaggio con il fidanzato e poi era tornata e finalmente, dopo un po’, aveva pure fatto la cosa giusta: velo e strascico bianco. Lia aveva continuato a uscire da sola con gli amici, invece di stare a casa da donna maritata e lasciava pure il “picciriddu” con il marito. Lia si faceva vedere da tutti nel centro di Palermo e tutti mormoravano di lei maritata che usciva da sola. E quelle voci diventavano domande al padre e ai familiari su quella figlia, che faceva di testa sua e mancava di rispetto alla famiglia. Che era una famiglia di rispetto, nella borgata dell’Acquasanta del mandamento di Ciccio Madonia.

Lia era una donna libera, che faceva di testa sua e non seguiva le regole. Lia aveva cominciato a frequentare un altro giovane e nessuno era riuscito a convincerla a non farlo. Lia era entrata in una sanitaria in quel pomeriggio del 23 settembre 1983, per telefonare da un telefono a gettoni. Lia era uscita dalla cabina telefonica e si era trovata davanti due rapinatori, che avevano già preso tutto l’incasso e poi avevano cominciato a spararle. Per uccidere. Lia aveva solo 24 anni quando era morta per una “rapina”.

Lia aveva un padre che non era un padre qualunque. Zu Nino era un uomo d’onore, capofamiglia ligio alle regole di Cosa nostra e rispettoso del volere dei capi più in alto di lui. Zu Nino era in forte imbarazzo davanti ai capi e a Cosa nostra per quella figlia che amava troppo la libertà e faceva troppo di testa sua. Quella figlia diventata un problema. Fino a quel pomeriggio nella sanitaria, quando il problema era stato risolto. Zu Nino era finito sotto processo, perchè dei pentiti lo avevano accusato di essere il mandante della soluzione del problema. Ma poi era finito assolto. Fino a quel libro, “Se muoio sopravvivimi”, scritto dal nipote figlio di Lia -che non era più “picciriddu” – e da un giornalista, che aveva fatto riaprire le indagini. Altri pentiti, altro processo e stavolta la condanna per i due capimandamento dell’Acquasanta, che avevano ordinato l’”ammazzatina” per risolvere il problema. Con il consenso di Zu Nino. Perchè Lia era troppo moderna, troppo libera e Cosa nostra non la poteva lasciare viva. E Zu Nino neppure. Lui che non poteva e non voleva sottrarsi alle regole che imponevano di risolvere il problema.

Una storia forte, dura, esemplare, quella di LIA PIPITONE. Che la COMPAGNIA TEATROLTRE di SCIACCA ha voluto ricordare e rivisitare con “SONO LE STORIE CHE FANNO ANCORA PAURA AI MAFIOSI”, portata in scena al Poli poche ore fa, per il Premio Aenaria. Una serata in cui il teatro è stato ciò che dovrebbe essere: coinvolgente, appassionante, evocativo, riflessivo, formativo. Un testo ben costruito, che riesce ad approfondire in modo equilibrato i vari spunti offerti dalla storia, che la esplora dai diversi punti di vista possibili, che gioca sapientemente tra le pieghe della verità “che  è sempre ballerina” e della verosimiglianza. Una messa in scena che esalta la drammaticità dalla vicenda realmente accaduta, gli intrecci, la complessità del contesto e delle relazioni. Che non sottace, non imbelletta, non mimetizza, tanto meno misconosce e disconosce non solo la presenza della mafia sul territorio, ma soprattutto la pervasività sociale della mentalità che essa esprime, fino a stritolare chiunque si discosti dai modelli di comportamento che impone. Una regia capace di drammatizzare e alleggerire quando serve e di coinvolgere intelligentemente il pubblico in momenti diversi, di spettacolo, di partecipazione critica, di consapevolezza. Ottima l’interpretazione dell’attore protagonista, vero animale da palcoscenico, e del comprimario, in un ruolo che ben contribuisce alla resa complessiva della rappresentazione.

Una bella prova di teatro che è anche momento significativo di testimonianza e di impegno civile. Un’opera che andrebbe proposta anche nelle scuole. Con lo scialle rosso che Lia amava indossare sistemato in prima fila, come se lei fosse lì. Doveroso omaggio a una vittima innocente poco conosciuta. Che lo Stato non ha neppure riconosciuto ancora come vittima di mafia.

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