Intervista a Corrado Minervini, l’approccio partecipativo alla ricostruzione a Casamicciola

COMUNICATO STAMPA

IMG_7536Tre giorni fitti di incontri vis-à-vis  con amministratori pubblici, tecnici, imprenditori, giornalisti, rappresentanti di associazioni e cittadini della zona terremotata. E una indagine statistica condotta tra questi ultimi per conoscerne bisogni e aspettative. Un intenso lavoro preparatorio al workshop del PIDA “Protopia Maio”, in corso alla Tenuta Piromallo di Forio, che l’architetto Corrado Minervini sintetizza com due parole: tecnologia partecipativa. Lui è un esperto di questo particolare approccio alla ricostruzione di aree colpite da catastrofi naturali o distrutte da eventi bellici. E come consulente delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea lavora in vari Paesi, garantendo un coinvolgimento attivo delle popolazioni interessate fin nella fase preliminare della progettazione di nuovi insediamenti urbani lì dove sono rimaste solo macerie. All’estero, compresi i Paesi in via di sviluppo, è una prassi consolidata e largamente praticata, al contrario del nostro, di Paese, dove è invece decisamente trascurata. “In Italia ha più la caratteristica di un atto di benevolenza del progettista verso la cittadinanza, a volte anche per scaricarsi dalla piena responsabilità di alcune scelte”, è il suo commento. Il PIDA lo ha invitato a Ischia tra i tutor degli studenti delle Università “Federico II” di Napoli, di Palermo e di Roma Tor Vergata che stanno lavorando ai progetti per la possibile ricostruzione dell’area colpita dal terremoto dell’anno scorso. “Sono qui per dare una dimostrazione della metodologia dell’approccio partecipativo, con indagini statistiche e buone pratiche teorizzate e descritte in numerosi studi e tantissimi volumi ben noti a livello internazionale - dice – Ai nostri giovani vogliamo mostrare che esiste questa possibilità e che tra le componenti da prendere in considerazione, nell’approccio olistico necessario alla progettazione, vi sono anche le necessità e le indicazioni dei soggetti beneficiari, ovvero i cittadini”.

Quali erano le informazioni che si puntava ad acquisire attraverso l’indagine statistica tra gli abitanti della zona rossa?

“Bisognava capire, innanzitutto, se gli abitanti fossero informati e consapevoli e fino a che punto delle caratteristiche dei rischi in caso di eventi sismici. Sempre, quando c’è un evento distruttivo per cause naturali o guerre, vanno approfonditi tre fattori: il rischio, l’esposizione al rischio e la vulnerabilità del tessuto urbano. Era stata mai fatta un’indagine del genere a Ischia? Esiste un piano che definisca i termini di esposizione al rischio? Eppure, è prescritto dalle normative internazionali che all’estero si applicano regolarmente. E i piani di preparazione ai disastri servono ad acquisire la consapevolezza che vivi in un rischio potenziale, che la struttura urbana in cui vivi non ti dà la possibilità di scappare, magari perchè le strade tra le case sono troppo strette, e che le caratteristiche tecniche dell’edificio in cui vivi non ti danno la possibilità di salvarti. Questo dei questionari era uno dei modi per ricavare informazioni, poi ci sono stati gli incontri con persone che hanno una visione, con associazioni, gruppi, al fine di coinvolgere le varie componenti della comunità urbana, soggetti pubblici e privati e la società civile”.

Quali indicazioni utili sono arrivate dall’indagine statistica tra i terremotati?

“Innanzitutto, che i cittadini di Casamicciola hanno bisogno di essere informati delle caratteristiche del loro territorio e dei rischi connessi. Poi è emersa l’esigenza di non perdere la memoria e l’identità del luogo. Identità anche economica e sociale. Ma è indicativo che se alla classica domanda sull’andare altrove, tutti hanno risposto di no, a quella successiva, in cui si accompagnano all’ipotesi dell’andare altrove anche nuove opportunità e più vantaggiose di natura lavorativa ed economica, c’è stato chi ha risposto positivamente. L’importante, anche per chi si trasferisce, è di mantenere un’identità. E poi bisogna creare opportunità di lavoro e anche la ricostruzione può offrirle. La minore esposizione al rischio è collegata all’evoluzione economica. Perciò la progettazione deve partire da un quadro delle opzioni molto chiaro, anche sul piano economico, da un vero e proprio business plan. Comunque, l’area da ricostruire va depotenziata sia a livello demografico che di costruzioni, altrimenti non si potrà garantire la riduzione dell’esposizione al rischio”.

Che ruolo può avere la società civile nella ricostruzione?

“Dovrebbe prendere in mano la ricostruzione il più possibile. Una delle persone incontrate ha definito la società civile come una Cassandra. Mi piace questa visione, è il ruolo ideale per fare proposizioni generatrici di qualcosa. Che poi è ciò che stanno facendo gli studenti del workshop. I ragazzi sanno che devono garantire le necessità degli abitanti e anche la qualità dello sviluppo urbano. Naturalmente, per ottenere tutto questo non basta una buona progettazione, ma è essenziale che sia realizzata bene e, dunque, che sia seguito anche il processo costruttivo che segue al progetto”.

Cosa possiamo aspettarci dal workshop?

“I ragazzi stanno facendo un gran lavoro, avendo a disposizione le informazioni e gli input necessari. Da loro possono venire soluzioni estremamente creative e sono in grado di elaborare un piano di sviluppo urbano molto concreto. Da questi tavoli di lavoro del workshop verranno certamente idee e strategie per rimettere in moto il tessuto urbano, economico e sociale del luogo. Stanno fondando una nuova città. Una piccola città che crea una città. Così come il PIDA sta creando azioni e partnership tra privati impensabili prima. Il lavoro che uscirà dal workshop potrà avere una valenza internazionale, anche in considerazione della dimensione internazionale dell’isola”.

Ma la zona rossa è ancora piena di macerie…

“Le macerie si possono trasformare in inerte ed essere riutilizzate per la ricostruzione”.

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