“Spazi allo specchio”, sul Castello Aragonese le fotografie di Alessandra Chemollo in mostra

chemolloHa scelto di vivere nella Venezia che si sta spopolando per lasciare sempre più spazio ai turisti. Circondata dalla bellezza, tuttavia senza correre il rischio di abituarcisi. Dietro l’obiettivo, continua a fissare lo sguardo oltre lo scontato, il prevedibile, l’evidente. A cogliere quei dettagli e quelle sfumature che quasi nessuno coglie, men che meno nel turbine compulsivo degli scatti da social e dei selfie. E a trovare spunti sempre nuovi anche in luoghi, paesaggi, ambienti familiari o già ben scandagliati. Alessandra Chemollo, fotografa per passione e architetta anche per la passione della fotografia, racconta con le sue fotografie l’opera di architetti contemporanei, dopo aver dedicato anche molta attenzione agli autori del passato. E interpreta la sua professione come una ricerca artistica e di linguaggio, ma anche come una opportunità di impegno civile che ha concretizzato in un grande progetto corale dopo il terremoto dell’Aquila. Un progetto innovativo che non è stato indifferente all’assegnazione del Premio PIDA Fotografia 2018, che è venuta a ritirare a Ischia, sul Castello Aragonese, dove ha inaugurato una sua mostra, “Spazi allo specchio”, che resterà esposta nel monumento simbolo dell’isola fino al 15 ottobre.

 - Come commenta il Premio PIDA per la Fotografia appena ricevuto?

“Come un dono del tutto inaspettato. Questa iniziativa, con i premi e tutte le attività in corso  in questa settimana, è sana, vera, fatta da persone che ci credono e cercano di dare un contributo per migliorare le cose. Una iniziativa che cerca di portare cultura e qualità e la fotografia che rappresenta gli spazi architettonici, può contribuire a questo obiettivo. Vengo da una città molto viva nella promozione culturale, in questi giorni si stanno aprendo ben sei mostre, e dunque apprezzo ancora di più e capisco il grande sforzo che c’è dietro questo progetto. Il fatto, poi, che il premio mi sia arrivato da persone che non conosco mi gratifica, perchè vuol dire che è stato scelto proprio il mio lavoro, e mi conferma l’impressione che si tratti di un’operazione sana”.

 - E’ anche l’occasione per esporre a Ischia, in spazi particolari come quelli del Castello Aragonese

“Prima di qualunque decisione, ho voluto fare un sopralluogo dello spazio espositivo e in base a quello ho scelto alcune cose che avevo già e molte che ho stampato apposta. Ho usato questa occasione come una riflessione personale sul lavoro di questi anni, ormai oltre trenta, visto che ho iniziato nell’86. Ho selezionato alcuni lavori recenti, ma per la maggior parte sono fotografie fatte su pellicola. Ho attraversato in questa anni le varie fasi, la materia è cambiata dalla pellicola al digitale, che uso oggi. Una materia molto diversa, che incide molto sulla caducità dei lavori. Con tutti i suoi vantaggi, il digitale non è paragonabile alla pellicola su quel piano”.

 - Come potrebbe definire il suo rapporto con le immagini che realizza?

“Ogni fotografia è una immagine mia interna che vado a costruire. La fotografia è la registrazione dell’immagine interiore di una persona proiettata sul mondo. La fotografia introduce a dei grandi percorsi di consapevolezza, sia individuali che collettivi. E sollecitare la consapevolezza nell’osservare e raccontare il mondo anche per immagini sarebbe la missione della fotografia. Purtroppo, è molto trascurata a livello universitario e del mondo accademico. E invece bisognerebbe restituirle autorevolezza, tanto più ora che tutti la usano perlopiù in modo inconsapevole”.

 - E il rapporto con gli architetti di cui fotografa le opere?

“Mi considero una fotografa al servizio. Devo lavorare su un testo complesso già scritto dall’architetto e raccontarlo. Il rapporto con gli autori è molto vario, c’è chi lascia libertà e chi cerca di condizionarti. Personalmente, cerco di sottrarmi ai condizionamenti. Certo, si tratta sempre di una interpretazione, perchè nel fotografare un qualunque oggetto ci sono i filtri del mio patrimonio di conoscenza, della mia sensibilità, che si devono confrontare con l’idea di chi ha generato l’oggetto. Ma questo vale anche in rapporto ad un territorio, quando si fotografano dei luoghi. Anche in quel caso si deve essere al servizio e mediare tra lo sguardo esterno del fotografo e quello dall’interno di chi ci abita. E un confronto molto interessante, che ha avuto un ruolo importante nel progetto che abbiamo realizzato all’Aquila”.

 - Prima o dopo il terremoto?

“Dopo. In due momenti diversi. Il primo è stato nel 2010, in otto abbiamo allestito una mostra “Sisma and city”, che abbiamo presentato a Palazzo Ducale a Venezia e di cui si è parlato molto. Come atto di ribellione al sistema, abbiamo deciso di creare un collettivo e di non firmare singolarmente le foto. Abbiamo costituito una rete locale e mappato con le foto tutta l’area rossa, prima della messa in sicurezza. Un lavoro enorme, tutto autofinanziato, che è ha disposizione come archivio di immagini della città colpita. Poi abbiamo organizzato un gruppo ancora più numeroso, ben 5 fotografi scelti tra i migliori professionisti italiani. Per una settimana ci siamo trasferiti all’Aquila e siamo usciti ogni giorno ciascuno accompagnato da un residente aquilano. Ne è uscita una grande testimonianza della città che vorremmo consegnare e mettere a disposizione di una istituzione. Intanto, faremo un’esposizione alla Triennale ad ottobre. Avevamo pensato di riprodurre questo schema in altri territori, sempre in collaborazione con la gente del posto. Abbiamo fatto qualcosa in Sardegna, ma l’organizzazione è complessa, anche per il finanziamento che è un problema”.

 - Ha avuto modo di visitare la zona terremotata di Casamicciola?

“Ancora no, ho dovuto allestire la mostra, ma conto di andarci, certo”.

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