Vent’anni fa, lo scavo a Punta Chiarito rivelò un altro capitolo della storia di Pithekoussai

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Foto Qui Ischia

Il fango ha tolto e il fango ha restituito. Ventisei secoli più tardi. E’ questa la genesi di una delle più grandi scoperte archeologiche degli ultimi decenni, che ha consegnato  alla storia altri preziosi elementi per ricostruire l’alba della Magna Grecia. A Pithecusa. Anzi, a Pithekoussai, al plurale, perchè è stato proprio il ritrovamento a Punta Chiarito a confermare l’esistenza di insediamenti greci in altre zone dell’isola, oltre a quello principale (ri)scoperto nei primi anni Cinquanta a Lacco. Dove ieri mattina si è tenuta una interessante conferenza su Punta Chiarito, presso il Museo Archeologico di Villa Arbusto, l’unico posto in cui si può parlare di quella importante scoperta davanti ad alcuni dei reperti che ha restituito. E l’unico posto in cui ci si può fare un’idea del sito archeologico di Panza, seppur grazie ad una piccola riproduzione, alle fotografie e alla planimetria dello scavo. Già, perché la maggior parte dei reperti ritrovati – e sono tanti e di straordinario valore – è stata di nuovo seppellita, da molti anni, nel MUSEO ARCHEOLOGICO DI NAPOLI, dove la SALA dedicata a Punta Chiarito continua ad essere scandalosamente CHIUSA e, dunque, preclusa alla fruizione, cioè alla conoscenza, del pubblico. Senza dimenticare l’altro aspetto scandaloso tutto isolano di questa vicenda, ovvero la CHIUSURA PERMANENTE DEL SITO, abbandonato alle erbacce, mentre da otto anni sarebbe potuto diventare il primo parco archeologico dell’isola. E ieri, nel diciassettesimo anniversario dell’apertura del Museo di Pithecusae, era la giornata giusta per non far calare ulteriormente l’oblio sulla storia di Punta Chiarito.

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Foto Qui Ischia

A raccontarla con passione ed entusiasmo inalterate, dopo un saluto dell’assessore CECILIA PROTA, è stata la professoressa MARIA LAURO, che quell’avventura carica di incognite e prodiga di sorprese l’ha vissuta e condivisa attimo per attimo. Fin da quando, nel 1993 arrivò per la prima volta a Punta Chiarito, incaricata dalla Sovrintendenza guidata da STEFANO DE CARO di effettuare dei saggi di scavo lì dove nel 1988 erano emersi dei frammenti di anfore a seguito di un fenomeno alluvionale a Cava Fumerie. In quell’occasione, l’allora comandante dei vigili SALVATORE NICOLELLA si era premurato di inviare tutti i frammenti all’ufficio isolano della Sovrintendenza diretto da COSTANZA GIALANELLA, che li aveva riconosciuti come di epoca greca e aveva provvveduto poi a farli ricomporre e restaurare, ricreando così due grandi anfore, che oggi sono esposte a Villa Arbusto. Durante il recupero, era stato DON PIETRO MONTI, chiamato sul posto da Nicolella, a segnare il punto esatto del rinvenimento. Da dove si partì nel ’92 per una prima ricognizione del sito e nel ’93 per l’avvio dello scavo.

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Foto Qui Ischia

Il primo ostacolo da superare fu uno spesso strato di FANGO E TUFO VERDE, la cui rimozione restituì dei muri a secco allineati. “Cosa avete trovato, un recinto per le galline?”, fu il commento ironico di GIORGIO BUCHNER quando fu informato della novità, ancora tutta da interpretare. Mentre i vicini arrivarono a chiedere, ottenendolo, l’intervento delle forze dell’ordine, per stroncare un abuso edilizio! Chiarito l’equivoco, lo scavo proseguì fino a liberare un’area in  cui fu trovata una grande vasca di pietra tenera di Monte di Vico, neppure ultimata, anch’essa frammentata, nella quale si trovava una doppia ascia. Anche quella vasca è esposta a Villa Arbusto. Tutt’intorno riaffiorarono tanti frammenti ceramici, come in tutto il resto dell’area, man mano che veniva scavata.

Una seconda, molto più imponente campagna di scavo partì nel 1996, dopo aver raccolto a fatica i fondi necessari. Quei muri di cui non si era capita la funzione, delimitavano una struttura a pianta ovale, tipica anche in Eubea a quei tempi, dentro la quale furono ritrovati, seppure schiacciati dalla massa fangosa, tutti gli oggetti in dotazione a quella che si configurava come un’abitazione  databile tra la fine del VII a.C. e la metà del VI secolo. Oggetti di ceramica, di varie provenienze, di uso comune ma anche di particolare pregio. Tanto da aprire una lunga riflessione su quale fosse la funzione della struttura e a chi potesse appartenere. Tra l’altro, furono trovati oggetti riconducibili ad un’ATTIVITA’ DI PESCA a traino, confermata indirettamente dall’enorme quantitativo di gusci di patelle, utilizzate come esche. E non mancavano lische di pesce. D’altra parte, furono trovati all’esterno della struttura segni inequivocabili di ATTIVITA’ AGRICOLA, confermata dalle analisi (anche sui pollini) di una biologa, che evidenziarono l’esistenza di un vigneto (con i buchi nel suolo per i pali di castagno), di alberi di ulivo, di meli e coltivazioni di cereali.

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Foto Qui Ischia

La CASA ERA DI GRANDI DIMENSIONI, 7 metri per 4, tanto per quei tempi. C’erano un focolare, un muro di divisione che segnava l’area per la preparazione dei pasti e la tessitura e una grande dispensa, in cui grosse anfore custodivano le derrate alimentari. E furono liberati dal fango solidificato i buchi per i pali che sorreggevano il tetto. Che nella casa del VII-VI secolo era di tegole e coppi. Quanto agli spazi per dormire, erano probabilmente collocati in una struttura ulteriore, collegata, di cui sono state trovate tracce nello spazio circostante. E nulla esclude che intorno vi fossero altri manufatti, forse destinati ai lavoranti di quella che è stata divulgata come LA FATTORIA DI PUNTA CHIARITO. Secondo la teoria di Buchner, che seguì e sostenne le campagne di scavo, doveva trattarsi della residenza di campagna di un proprietario benestante, forse anche aristocratico, che d’estate vi si spostava dal capoluogo di Pithecusa, e che poteva avere alle sue dipendenze pescatori e agricoltori. Tutti gli abitanti furono costretti a lasciarla all’improvviso per una violenta alluvione, che forse li travolse scaraventandoli a mare.

Lo scavo archeologico proseguì al di sotto del paleosuolo del VII-VI secolo, con la scoperta sotto uno strato di 80 centimetri di CENERI E LAPILLI di altri muri a secco, sicuramente una struttura dell’VIII secolo a.C., dunque del periodo più antico di Pithecusa. Doveva essere anch’essa una casa, sormontata da un tetto di paglia impastata, in un terreno coltivato. Abbandonata in fretta per un altro evento naturale disastroso: una violenta eruzione di cui, prima di quella scoperta, non si aveva notizia.

La stratigrafia del sito, ricostruita con l’apporto decisivo del geologo ANTONINO ITALIANO, racconta di un’eruzione nell’VIII secolo, con la bocca vulcanica a breve distanza da Punta Chiarito, che cambiò l’aspetto di tutto il versante meridionale dell’isola, accompagnata da scosse telluriche e seguita forse da uno tsunami. In quell’occasione, però, gli abitanti ebbero il tempo di mettersi in salvo. Rimasto disabitato per qualche decennio, quel terreno fu occupato di nuovo tra il VII e il VI e la casa ricostruita, finchè non arrivò la colata di fango, probabilmente (lo si evince dai pollini) in primavera. Un evento distruttivo forse mortale, che però ha consentito di far arrivare fino a noi tutto il contenuto della casa e delle sue immediate vicinanze.

La scoperta della casa più antica dell’VIII secolo ha contribuito a confermare la natura e la funzione di Pithekoussai asserita da Buchner come prima colonia (apoikìa) dei Greci in Occidente, smentendo la tesi che la voleva semplice scalo commerciale (émporion). E ha offerto reperti e testimonianze fondamentali anche per conoscere meglio la vita quotidiana dei pithecusani in rapporto alla vita nella madrepatria, un’altra isola, l’Eubea. Comunque, una grande scoperta, che merita di non cadere vittima dell’oblio, del degrado (del sito), dell’indifferenza. Per fortuna, il Museo di Pithecusae ne tiene vivo l’interesse, vent’anni dopo.

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